La sede dell’Università della Sapienza
La costruzione del palazzo della Sapienza, con la chiesa di S. Ivo e la biblioteca Alessandrina, ora storica sede dell’Archivio di Stato di Roma, si estese sull’arco di quasi due secoli, configurandosi come un cantiere aperto a cui pontefici e architetti andarono aggiungendo settori e corpi di fabbrica, destinati agli usi funzionali dell’università romana, aggiornandone costantemente nel tempo il progetto complessivo.
Nel 1497 papa Alessandro VI Borgia diede inizio alla costruzione del palazzo che avrebbe ospitato nel cuore della città, vicino alla chiesa di S. Eustachio, le scholae dell’università romana dislocate in quella zona, riunendo così in un’unica sede lo Studium Urbis, denominato anche «Sapienza».
Durante il pontificato di Leone X Medici (1513-1521) fu impostato l’edificio a pianta rettangolare con le aule e un braccio del porticato, detto braccio leonino, sul versante di via delle Catene (ora via dei Sediari). Dopo il Sacco di Roma, Pio IV Medici (1559-1565), affidò la prosecuzione dei lavori a Pirro Ligorio, architetto napoletano, grande conoscitore dell’antico, che progettò lo sviluppo dell’edificio lungo un asse longitudinale, allineando in successione l’ingresso principale, il cortile e la chiesa. Negli ultimi vent’anni del Cinquecento la direzione del cantiere del palazzo venne affidata a Giacomo Della Porta che, sulla base del progetto di Pirro Ligorio, completò l’edificio con ingresso rivolto verso piazza Navona e il cortile delimitato da eleganti portici, sovrastati da logge, e da un’esedra con archi ciechi sul lato verso S. Eustachio, ove avrebbe dovuto sorgere una chiesa a pianta centrale.
Al principio del Seicento l’edificio, strutturato su tre lati, attendeva il completamento del fronte orientale: spetterà a Francesco Borromini, architetto ticinese, la realizzazione della parte verso S. Eustachio con la chiesa di S. Ivo, il braccio della biblioteca e la facciata del palazzo adorna di due portali d’ingresso sormontati da finestroni decorati da splendidi motivi ornamentali e balconi monumentali.
Le vedute del cortile dell’edificio e del prospetto su piazza S. Eustachio permettono di apprezzare appieno la cupola della chiesa borrominiana che svetta dal corpo mediano del palazzo e gli ornati allegorici inseriti da Borromini nel cornicione, sui finestroni, tra le mensole e le balaustre dei balconi (libro, spada, bilancia, allusivi alle discipline giuridiche, serpente e specchio a quelle mediche).
L’università romana
Nella bolla In supremae, emanata da Bonifacio VIII nel 1303, considerata l’atto di fondazione dell’Università di Roma, si afferma che lo Studio romano, in cui già si insegnava diritto, teologia e medicina, doveva funzionare in qualibet facultate. Un decennio più tardi Clemente V, primo papa avignonese, introdusse nello Studium Urbis l’insegnamento delle lingue ebraica, araba e caldea. Nel Trecento l’insegnamento universitario comprendeva il diritto canonico e civile, la medicina, la grammatica, la teologia, le lingue orientali. Nel corso del Quattrocento i programmi di studio accolsero inoltre la filosofia, l’astronomia, la retorica, il greco, l’eloquenza, per aprirsi dal Cinquecento in avanti alle scienze e alla matematica: le varie scuole, aggregatesi dalla fine del secolo nel luogo ove sorgerà il complesso della Sapienza borrominiana, si strutturarono attorno a un corpo docente omogeneo, distribuito nei tre classici collegi: giuridico, medico e teologico.
Leone X (1513-1521) organizzò la vita interna dell’Università fissandone programmi d’insegnamento e valutazione dei docenti; a seguito del Sacco di Roma lo Studio venne chiuso per riaprire nel 1535 assieme alle scuole rionali, nelle quali i maestri insegnavano il latino ai fanciulli. Il Collegio degli avvocati concistoriali deteneva lo ius doctorandi, ossia la facoltà di rilasciare gradi e lauree nel diritto canonico e civile, e dalla fine del Cinquecento anche l’ufficio del rettorato: i suoi membri divennero così per più di due secoli i veri arbitri dei destini dello Studio romano come testimoniano le numerose lapidi ancora presenti dentro e fuori l’edificio. Nella prima metà del Seicento il cardinale Francesco Barberini, nipote del papa Urbano VIII e protettore dell’Ateneo, promosse l’insegnamento alla Sapienza delle discipline scientifiche che già nel Cinquecento avevano brillato con la cattedra di matematica ricoperta da Niccolò Copernico (1473-1545). Ai discepoli di Galileo (Benedetto Castelli, 1578-1643, Evangelista Torricelli, 1608-1647) furono affidate le cattedre di matematica e astronomia, mentre sulla cattedra di botanica sedettero Michele Mercati (1541-1593), medico, naturalista, archeologo, paleontologo, e Johann Faber (1575-1629), accademico dei Lincei, collezionista di naturalia, anticipatore del metodo sperimentale di Galilei, di cui fu grande amico.
Al fiorire delle materie scientifiche in seno all’Archiginnasio romano si accompagnò, alla metà del Seicento, il completamento del palazzo ad opera di Borromini: il 14 novembre 1660, Alessandro VII (1655-1667) inaugurava solennemente la Sapienza nel suo nuovo, splendido assetto architettonico. Papa Chigi arricchì inoltre l’istituzione universitaria di nuove strutture didattiche: oltre alla Biblioteca borrominiana, chiamata ‘Alessandrina’ in suo onore, il pontefice dotò la facoltà di Botanica di un Orto Botanico ad uso dell’Università, opera questa ricordata da una targa marmorea che campeggia al centro della facciata della chiesa di S. Ivo.
Il pontificato Chigi rappresentò uno dei momenti di maggior fulgore dell’Archiginnasio romano: a partire dal Seicento le tesi di laurea si discutevano nell’Aula Magna e, concluso il cantiere borrominiano, nella Biblioteca Alessandrina o nella chiesa di Sant’Ivo. I laureandi presentavano le loro tesi, stampate su grandi fogli adorni di frontespizi allegorici (raccolti in volumi conservati nell’archivio dell’Università) firmati dai più noti artisti del Sei-Settecento, i cui soggetti, tratti da un repertorio classico-cristiano di non sempre agile interpretazione, alludono alle virtù sapienziali del laureando o del dedicatario della tesi.
Successivamente, Pio VII (1800-1823) istituì la cattedra di veterinaria unitamente al gabinetto di scienze naturali e con Napoleone la Sapienza divenne sede dell’Accademia imperiale, e fu articolata in cinque facoltà: teologica, legale, medica, fisico-matematica e belle lettere, cui, nel 1813, si aggiunsero archeologia, anatomia comparata e farmacia. Al rientro in Vaticano, Pio VII riprese la politica universitaria dei primi anni di pontificato, ampliando le facoltà scientifiche con la cattedra di fisica sacra e gli insegnamenti di algebra, geometria e calcolo sublime.
Leone XII (1823-1829) con la costituzione Quod Divina Sapientia, avvia un vasto programma di riforme del sistema scolastico dello lo Stato pontificio, istituendo la Sacra Congregazione degli Studi, una sorta di ministero della Pubblica Istruzione ante litteram, e promuovendo l’Università di Roma istituzione accademica primaria dello Stato, insieme a quella di Bologna (gli atenei di Camerino, Fermo, Ferrara, Macerata, Pesaro e Urbino furono considerati università secondarie). Il provvedimento leonino rimarrà in vigore fino al tramonto dello Stato pontificio quando nel 1870, con la proclamazione di Roma capitale, l’antico Studium Urbis si trasformerà in Regia Università di Roma. Nell’ambito del Regno d’Italia l’Ateneo romano, per una precisa scelta di politica culturale, avrebbe dovuto divenire un centro scientifico di eccellenza, punto di raccordo delle istituzioni universitarie disseminate sul territorio nazionale, motivo per il quale si favorì il trasferimento a Roma dei docenti più brillanti provenienti da altri atenei italiani. La vita dell’Archiginnasio romano proseguì nella sede borrominiana fino al 1935, quando l’università venne trasferita nella Città universitaria progettata da Marcello Piacentini. L’edificio della Sapienza, divenuto sede dell’Archivio di Stato di Roma, fu destinato ad accogliere un prezioso patrimonio di documenti, incluse quelle carte che proprio in quel palazzo avevano visto la luce.